La resilienza: analisi dei modelli e degli strumenti di misurazione

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Resilience: models and measuring instruments analysis

di Andrea Laudadio, Giulia Colasante e Maria D’Alessio
Facoltà di Psicologia 1, Università degli studi di Roma “La Sapie
nza”

Contatti:
Andrea Laudadio
Andrea.laudadio@uniroma1.it
Via dei Marsi, 78
00185 Roma
Tel 06.444.27.672

Riassunto

La resilienza è definita come un processo dinamico che comprende l’adattamento positivo all’interno di un contesto significativamente avverso. Sono impliciti: (1) l’esposizione ad un rischio significativo e (2) l’adattamento positivo malgrado l’importante minaccia cui è sottoposto lo sviluppo del soggetto (Garmezy, 1991; Luthar e Zigler, 1991; Werner e Smith, 1992). Il costrutto si è evoluto negli ultimi trent’anni, all’interno di un panorama scientifico piuttosto scarso, non senza contraddizioni teoriche ed operative. L’obiettivo del presente contributo è di presentare i principali modelli teorici disponibili in letteratura e gli strumenti esistenti in ambito internazionale.

Summary

Resilience refers to a dynamic process encompassing positive adaptation within the context of significant adversity. Implicit within this notion are two critical conditions: exposure to significant threat or severe adversity; the achievement of positive adaptation despite major assaults on the developmental process (Garmezy, 1991; Luthar & Zigler, 1991; Werner & Smith, 1992). The concept evolved in the last thirty years, inside a scientific view rather scarce, with theoric and operative contradictions. The aim of this article is to present the main theoretical models available in literature and the instruments existing in the international panorama.

Parole chiave: Resilienza, Modelli, Strumenti

Keywords: Resilience, Models, Tools

Introduzione

L’ IFSW– International Federation of Social Workers (2000) propone una definizione largamente accettata (Cronin, Ryan e Brier, 2007; Matthews e Walker, 2006; Stepney, 2006; Tunney e Kulys, 2004) secondo la quale un lavoro sociale è definibile come una professione in grado di promuovere il cambiamento sociale, la soluzione dei problemi nei rapporti umani e l’emancipazione degli individui allo scopo di favorirne il benessere personale. Adottando tale prospettiva, l’orientamento – sia per quel che riguarda le metodologie sia per le finalità – sembrerebbe ampiamente ascrivibile all’interno delle professioni sociali (cfr. Tien, 2007).

Appare necessario studiare la relazione tra l’individuo e il suo contesto lì dove vengono ad insorgere comportamenti che possono in modo diretto e indiretto mettere a repentaglio il benessere psicologico e sociale così come la salute fisica del soggetto, sia essa immediata che futura (D’Alessio e Laghi, 2007).

Alcuni Autori (Saleebey, 1997, 2001; Weick e Chamberlain, 1997) hanno evidenziato come, all’interno delle professioni sociali, l’adozione di prospettive e metodologie psicodinamiche abbia contribuito a definire gli utenti come portatori di deficit, problemi o patologie. In altre parole, gli utenti delle professioni sociali apparirebbero, in qualche modo, difettosi o deboli. Saleebey (1997), in contrapposizione, propone l’adozione (all’interno delle professioni sociali) di una nuova prospettiva basata sulle risorse dei soggetti e sul loro sviluppo, inteso come processo di superamento delle difficoltà del passato, rafforzamento delle aspettative e delle aspirazioni individuali, nonché utilizzo delle doti, delle conoscenze dell’individuo, della famiglia, del gruppo e della comunità.

La prospettiva proposta da Saleebey (1997) sembra offrire una chiave di lettura funzionale agli effetti dei recenti cambiamenti del mercato del lavoro (Arthur, 1994; Arthur, Inkson e Pringle, 1999; Hall e Mirvis, 1995). Molte delle situazioni problematiche legate alle carriere degli individui non sembrano oggi spiegabili semplicemente nei termini di condizioni di deficit dei lavoratori, ma – piuttosto – con il mancato potenziamento di alcune competenze necessarie allo sviluppo di carriera (Kuijpers e Scheerens, 2006). Krumboltz (1999) suggerisce di superare l’etichettamento di “problematici”, “difficili” o “indecisi” per coloro che non sembrano esprimere certezza riguardo la propria scelta professionale, in quanto i cambiamenti del mercato del lavoro renderebbero non lineari e non prevedibili gli sviluppi di carriera. Krumboltz (1992) dimostra quanto l’indecisione insita nell’assunzione di piani nel lungo periodo appaia attualmente la posizione più saggia rispetto all’organizzazione dei percorsi di carriera a lungo termine, a causa sia del costante cambiamento (scomparsa di alcuni lavori a favore di altri), sia per il continuo mutamento dell’individuo. Questo farebbe sì che i desideri e gli interessi appaiano in evoluzione e che i compiti lavorativi non necessariamente siano corrispondenti alle aspettative.

Quanto proposto da Saleebey (1997) suggerisce l’importanza, nelle professioni sociali e nell’orientamento, della dimensione della resilienza, intesa come capacità di superamento delle difficoltà del passato. Tale concetto, nell’ambito dell’orientamento si collega al modello di Salomone e Slaney (1981) – ripreso successivamente dalla teoria della casualità pianificata (Mitchell, Levin e Krumboltz, 1999) – e al costrutto di perseveranza, definito come la capacità di impegnarsi nonostante gli insuccessi.

I due costrutti – resilienza e perseveranza – sono molto prossimi, tuttavia, in ambito orientativo, crediamo sia preferibile il concetto dinamico e processuale di resilienza, in quanto la perseveranza sembrerebbe indicare un tratto di personalità stabile e difficilmente modificabile.

La resilienza

Il termine “resilienza” deriva dal latino resalio, iterativo di salio, che significa saltare, rimbalzare, per estensione danzare.

Tale concetto, nella tecnologia dei materiali metallici, indica “la resistenza a rottura dinamica determinabile con una prova d’urto” (Devoto e Oli, 1971); ovvero le modalità con cui si comporta un materiale quando è sottoposto a sollecitazioni esterne di tipo meccanico. Il suo opposto, in ingegneria, è rappresentato dalla fragilità. Nel linguaggio informatico, la resilienza concerne, invece, la capacità di un sistema di continuare a funzionare a dispetto di anomalie legate ai difetti di uno o più dei suoi elementi costitutivi (Malaguti, 2005).

La psicologia ha fatto proprio questo sostantivo per indicare la capacità dell’individuo di far fronte con successo alle avversità che incontra (Rutter, 1985).

Questo concetto è stato inizialmente introdotto nell’ambito della psicologia evolutiva da parte dei ricercatori che hanno studiato le risposte dei bambini in relazione ad eventi traumatici. Ad esempio, in uno studio longitudinale di Werner e Smith (1992) emerse che un numero molto alto di bambini – nonostante la presenza di molteplici fattori negativi – sembrava presentare uno sviluppo adeguato.

Secondo Anthony (1974) la capacità di alcuni bambini di stare bene, nonostante l’esposizione a determinati fattori di rischio, poteva essere indicata con il termine invulnerabilità. Attualmente, il sostantivo invulnerabile viene ritenuto ingannevole, poiché implica uno stato, assoluto e non modificabile, di opposizione alle pressioni ambientali; utilizzando il termine resilienza si sottolinea la presenza – accanto ai fattori di rischio – dei fattori protettivi (Luthar, Cicchetti e Becker, 2000) e la necessità di una dinamica positiva nella ricostruzione di un percorso di vita (Vanistendael e Lecomte, 2000).

L’analisi della letteratura evidenzia la presenza di due approcci allo studio della resilienza: il primo studia le caratteristiche proprie del soggetto resiliente mentre il secondo pone l’accento sui fattori di rischio e di protezione esplorando la resilienza nella relazione individuo-contesto.

Caratteristiche e competenze dell’individuo resiliente

Per Zani e Cicognani (1999) la resilienza rimanda a due competenze: capacità di essere flessibili e resistenza agli eventi dolorosi. Secondo Cramer (2000), la persona resiliente possiede una buona intelligenza, creatività, immaginazione e – se bambini – gusto per il gioco. Più recentemente, Putton e Fortugno (2006) hanno dettagliato le life skills di un individuo resiliente, ovvero: pensiero critico e creativo, decision-making, problem-solving, autoconsapevolezza, capacità di relazioni interpersonali (comunicazione efficace e empatia) e gestione delle emozioni e dello stress.

Secondo alcuni Autori (Fiz Perez e Laudadio, 2008), la resilienza si configura come il post-stress coping, ovvero come le modalità di coping per il fronteggiamento dello stress residuale dopo un evento.

Più in generale, Vanistendael e Lecomte (2000), utilizzando una metafora, concettualizzano la resilienza come una casa. La casa (casita) è posta sul suolo, rappresentato dai bisogni fisici fondamentali; le fondamenta sono costituite dalla rete di relazioni informali improntate all’accettazione dell’individuo in quanto portatore di valore come persona; al pian terreno gli Autori pongono la capacità di scoprire un senso della vita e la coerenza tra sentimenti, pensieri e azioni; al primo piano vengono poste la stima di sé, le attitudini e l’umorismo; nel solaio si trovano le possibili esperienze positive che una persona può fare e che contribuiscono a costruire la resilienza.

Fattori di rischio e relazione tra l’individuo e il contesto

La ricerca incentrata sullo studio delle caratteristiche di un individuo resiliente introduce solo marginalmente la dimensione del contesto, il quale rappresenta – di contro – il centro del secondo approccio.

Tale impostazione intende la resilienza come un processo dinamico che comprende l’adattamento positivo all’interno di un contesto significativamente avverso (Luthar e Cicchetti, 2000) e che prevede, inoltre, due presupposti fondamentali: (1) un adattamento positivo nonostante (2) l’esposizione ad un rischio significativo che minaccia lo sviluppo del soggetto (Garmezy, 1991; Masten, Best e Garmezy, 1990; Rutter, 1980; Werner e Smith, 1992).

I fattori di rischio non necessariamente provocano disagio quando sono presenti i fattori di protezione, e un solo fattore di rischio non sembra sufficiente a determinare un disadattamento. Sono necessari più fattori ed è per questo che si parla di rischio cumulativo (Luthar e Zigler, 1991; Werner e Smith, 1992). Secondo Rutter (1980) i fattori protettivi agiscono mediante processi che consentono:

a) la riduzione dell’impatto con la condizione di rischio;
b) la riduzione della catena di reazione negative;
c) lo stabilirsi e il mantenimento di sentimenti di autostima e di efficacia personali;
d) l’apertura a nuove opportunità di vita e di incontri (cfr. Emiliani, 1995).

All’interno di questa prospettiva di ricerca Zimmerman e Fergus (2005) sostengono che la resilienza non sia un tratto stabile della personalità, ma un concetto estremamente dinamico e concentrano la loro attenzione sulle risorse personali e di supporto sociale/genitoriale.

Complessivamente, oggi possiamo contare su quattro modelli di resilienza: tre sistematizzati da Zimmerman e Fergus (2005) ai quali possiamo aggiungere il modello sistemico di Richardson, Neiger, Jensen e Kumpfer (1990).

Modello compensativo

Nel modello compensativo (Edari e McManus, 1998) un fattore protettivo contrasta oppure opera in direzione opposta al fattore di rischio; tale modello include un effetto diretto dei fattori protettivi, che come tali risultano indipendenti dai fattori di rischio. Ad esempio, i giovani che vivono in povertà sono più portati ad incorrere in comportamenti negativi rispetto a quelli che non vivono in povertà; tuttavia, per i giovani in condizione di disagio, il monitoraggio degli adulti potrebbe arrivare a compensare gli effetti negativi della povertà.

Modello protettivo

Nel modello protettivo le attività o le risorse moderano o riducono gli effetti del rischio. Nell’ambito di tale approccio i fattori protettivi possono operare in molti modi nell’influenzare gli esiti. Luthar et al. (2000) propongono il modello protettivo-stabilizzante e il modello protettivo-reattivo; nel primo, il fattore protettivo aiuta a neutralizzare l’effetto del rischio mentre nel secondo il fattore protettivo diminuisce ma non rimuove completamente la correlazione attesa tra rischio ed esito. Alcuni Autori (Brook, Gordon, Whiteman e Cohen, 1986; Brook, Whiteman, Gordon e Cohen, 1989) riportano il modello protettivo-protettivo secondo cui un fattore protettivo migliorerebbe l’effetto di altri fattori protettivi. In questo caso, la relazione tra povertà e comportamento violento si riduce per i giovani con alto livello di supporto genitoriale, il quale sembra operare moderando gli effetti della povertà sul comportamento violento.

Modello della sfida

Un terzo modello di resilienza è il modello della sfida (Garmezy, Masten e Tellegen, 1984), il quale appare caratterizzato da un’associazione di tipo curvilineare tra fattori di rischio ed eventuali esiti. Questo suggerisce che l’esposizione a bassi o alti livelli di rischio non sia collegata in maniera lineare a delle conseguenze più o meno negative (Luthar e Zelazo, 2003). Nel modello della sfida, i fattori protettivi o di rischio studiati presentano la medesima variabilità – se questi rappresentino un fattore di rischio o di protezione dipende esclusivamente dal livello di esposizione del soggetto. In altre parole, alti livelli di rischio, se ben gestiti, potrebbero portare ad aumentare la capacità del soggetto di “resiliare” di fronte a nuove avversità, istaurando così un circolo positivo; al contrario, bassi livelli di rischio potrebbero non preparare il soggetto a reagire alle situazioni problematiche. Un conflitto familiare troppo piccolo, ad esempio, potrebbe rendere il soggetto impreparato a cogliere l’opportunità di imparare a fronteggiare o risolvere i conflitti interpersonali all’esterno.

Modello sistemico

Il modello di Richardson et al. (1990) è ispirato alla teoria generale dei sistemi e considera l’individuo come un sistema caratterizzato da due funzioni in apparente contraddizione: la tendenza omeostatica e la capacità di trasformazione. Il modello del processo di resilienza considera il soggetto come tendente a mantenere un equilibrio biopsicospirituale; quando un evento stressante rompe questo equilibrio, avviene una “rottura” che porterà ad un cambiamento: una ricostruzione. La ricostruzione può avvenire in diversi modi (Richardson, 2002):

a) reintegrazione resiliente, caratterizzata da crescita, autocomprensione e da un’accresciuta resilienza;
b) ricostruzione con ritorno all’omeostasi;
c) reintegrazione con perdita;
d) reintegrazione disfunzionale.

È possibile chiarire le diverse tipologie di reintegrazione a partire da un esempio: la perdita di una persona cara. Una reintegrazione disfunzionale è quella di chi si dispera e tende ad uno stato depressivo che diventa cronico; una reintegrazione con perdita è quella di chi non accetta la situazione negativa e continua a portare nella sua quotidianità il lutto; una reintegrazione con ritorno all’omeostasi è quella di chi tenta in ogni modo di ritornare alla normalità, alla routine, cercando di cancellare l’evento traumatico; infine, una reintegrazione resiliente è quella di chi riesce ad accettare ed elaborare il trauma, facendo sì che diventi un strumento di crescita personale.

Sviluppo della resilienza

Masten e Reed (2005) partendo da un’analisi degli studi e delle ricerche sulla resilienza, che considerano come una classe di fenomeni caratterizzati da modelli di adattamento positivo in contesti di significativi rischi ed avversità, ipotizzano tre modalità di raggiungimento della resilienza nel ciclo vitale.

Un percorso è quello di chi, pur partendo da condizioni di alto rischio, si sviluppa in maniera sana; un altro è quello di chi, in un certo momento della vita, attraversa esperienze traumatiche e poi si riprende; un altro ancora riguarda i ragazzi che vivono in una situazione di forte disagio e che, grazie a nuove opportunità e cambiamenti, possono avviarsi verso un’esistenza positiva. Gli Autori, similmente a quanto sostenuto da altri (Rutter, 1987a; Zimmerman e Arunkumar, 1994) evidenziano come l’esposizione a processi compensativi, protettivi e/o di sfida preparerebbero il soggetto ad affrontare le avversità future.

Adottando questa prospettiva si evidenziano numerosi punti di contatto tra gli stili di attaccamento e la formazione della resilienza. In particolar modo Fonagy (2000) ricorda che due decenni di studi e di ricerche longitudinali hanno dimostrato la correlazione tra attaccamento sicuro nei bambini (Bowlby, 1968) e il precoce sviluppo di una serie di capacità che si basano su competenze interpretative e simboliche, che egli definisce come Meccanismi Interpretativi Interpersonali (MII). Gilligan (1997), Fonagy (2000) e per certi aspetti anche Rutter (1980), tentano di conciliare due orientamenti epistemologici differenti, ovvero la psicologia dello sviluppo e la psicologia sociale, nell’ambito di un approccio trasversale. Secondo Gilligan (1997) lo sviluppo di un funzionamento resiliente si fonderebbe sui tre elementi che seguono.

a) Il sentimento di una base sicura: si collega ai primi studi di Bowlby (1968) e anche al sentimento di appartenenza alla rete sociale e relazionale. Rutter (1980) rileva che la presenza di un buon sostegno sociale equivalga ad un buon attaccamento familiare nella prima infanzia.

Numerosi Autori condividono questo approccio (Sroufe e Rutter, 1984) e concordano nell’utilizzare come indicatori di resilienza un attaccamento sicuro ai loro caregiver e la maturazione di un sé autonomo per i bambini piccoli (Sroufe, Egeland e Kreutzer, 1990) e il successo accademico e le relazioni positive con pari ed adulti per i bambini in età scolare (Masten e Coatsworth , 1995).

b) La stima di sé: si fonda sul riconoscimento da parte della persona dei propri meriti e delle proprie competenze. Rutter (1985) ritiene che due esperienze importanti, in grado di sviluppare la stima in senso positivo, siano la presenza di relazioni amicali e sentimentali sicure e l’acquisizione di successi in campi considerati importanti dalla persona.
c) Il sentimento di efficacia personale. Secondo Fonagy (2000) esso è strettamente legato con lo stile di parenting e può influenzare la consapevolezza delle proprie abilità e dell’ambiente circostante, dunque il processo o meno di autonomia.

L’importanza dell’autoefficacia è sostenuta anche dal modello ecologico che si sviluppa a partire dalla prospettiva teorica di Bronfenbrenner (1996). L’approccio ecologico allo sviluppo mette in evidenza l’interazione tra i diversi livelli dei sistemi che riguardano il soggetto: l’ontosistema (le caratteristiche interne), il microsistema (la famiglia), l’exosistema (la comunità, il territorio) e il macrosistema (la cultura e il sistema politico). Più il sistema è vicino all’individuo, più esercita un’azione importante su di lui. Secondo tale prospettiva, la resilienza del soggetto che si trova ad affrontare un trauma o una condizione particolarmente avversa ha bisogno anche della presenza di un ambiente che sia a sua volta resiliente, ovvero che cerchi di ristabilire un equilibrio alla rottura.

In ultimo, alcuni Autori, tra cui Vanistendael e Lecomte (2000) hanno come riferimento la psicologia umanistica, secondo la quale l’individuo possiederebbe una tendenza attualizzante intrinseca che lo porta a sviluppare tutte le sue potenzialità e a svilupparle in modo da favorire la sua conservazione e il suo arricchimento (Rogers e Kinget, 1970).

Prossimità e differenze tra modelli teorici

Quando si parla di resilienza si fa riferimento ad un costrutto recente e di complessa definizione, oggetto – negli ultimi trent’anni – di una crescente attenzione anche se all’interno di un quadro teorico piuttosto scarso.

Resilienza: tratto o processo?

Un primo punto che appare necessario dibattere è quello relativo alla natura del concetto di resilienza e più precisamente alla distinzione tra resilienza come tratto di personalità oppure come processo dinamico. Tale confusione deriva in gran parte dalla letteratura che si fa capo all’egoresilienza, un concetto definito da Block e Block (1980) come una caratteristica personale dell’individuo; in altre parole, un set di tratti che riflettono l’indipendenza e la forza del carattere, nonché la flessibilità del funzionamento in risposta alle diverse circostanze ambientali. I termini “egoresilienza” e “resilienza” sono stati usati per molto tempo ed erroneamente come concetti intercambiabili; in realtà, essi differiscono per almeno due dimensioni (Luthar, 1996):

a) l’egoresilienza è una caratteristica di personalità dell’individuo mentre la resilienza è un processo dinamico di sviluppo;
b) l’egoresilienza non necessita l’esposizione al rischio mentre la resilienza, per definizione, la presuppone.

Masten (1994) occupandosi degli aspetti terminologici raccomanda che il costrutto di resilienza sia utilizzato esclusivamente quando si fa riferimento al mantenimento di un adattamento positivo nelle condizioni avverse e di conseguenza mette in guardia dall’uso del termine “resiliency”, il quale farebbe implicitamente riferimento ad un tratto di personalità.

Secondo Luthar et al. (2000) associare la resilienza ad un tratto stabile di personalità può permettere certamente di individuare persone resilienti e non resilienti, ma porrebbe un limite alle attività di intervento, in quanto sarebbe teoricamente impossibile intervenire su soggetti “non aventi” ciò che serve per superare le avversità.

È stato notato un uso occasionale dell’espressione “bambino resiliente” anche tra gli studiosi che concettualizzano la resilienza come un processo dinamico (cfr. Masten et al., 1990; Rutter, 1993; Werner, 1984). È da notare, comunque, che il termine “bambino resiliente”, in questi casi non si riferisce ad un attributo personale discreto, come l’intelligenza o l’empatia; tale definizione è stata usata in riferimento a due condizioni coesistenti nel processo di resilienza – la presenza di una minaccia al benessere del bambino e la presenza di un buon adattamento a dispetto delle avversità incontrate (Luthar, 1993, 1999; Richters e Weintraub, 1990).

Sembra necessario essere cauti nell’uso della terminologia, come nel caso di “protettivo” e “vulnerabile” (Luthar et al., 2000). Nelle descrizioni più esaustive dei modelli di resilienza (Garmezy et al., 1984; Masten et al., 1988; Rutter, 1987a), il termine protettivo sta ad indicare quelle attività che includono interazioni, dove gli individui con particolari attributi, e non quelli che ne sono privi, rimangono relativamente inalterati da alti/bassi livelli di avversità. La confusione intorno al termine “fattore protettivo”, include quella parte di letteratura nella quale tale aspetto viene usato in maniera interscambiabile per discutere i principali modelli di attività del soggetto senza soffermarsi sui processi di resilienza (Haggerty, Sherro, Garmezy e Rutter, 1994; Luthar e Zigler, 1991; Rolf e Johnson, 1990). Per ridurre l’ambiguità del termine, Luthar (1993) propone la distinzione tra il modello protettivo-stabilizzante, dove l’attributo in questione conferisce stabilità nella competenza a dispetto dell’aumento del rischio; il modello protettivo-migliorativo, quando l’attributo consente al soggetto di impegnarsi contro lo stress affinché la competenza aumenti con l’aumentare del rischio e il modello protettivo-reattivo, dove l’attributo conferisce vantaggi ma in misura minore quando il livello di rischio è alto.

Secondo Luthar et al. (2000) simili suffissi possono venire impiegati anche per quanto riguarda i fattori di vulnerabilità, i quali vengono attribuiti a soggetti che mostrino un grande disadattamento. Si distingue tra vulnerabile-stabile, quando lo svantaggio globale dell’individuo collegato all’attributo rimane stabile a dispetto del cambiamento del livello di stress e vulnerabile-reattivo, quando lo svantaggio globale collegato all’attributo aumenta con l’accrescere del livello di stress.

Resilienza: tra cognizioni, emozioni e conazioni

Il costrutto della resilienza fa riferimento a dimensioni come la cognizione, l’emozione e la conazione. Alcuni studi (Kaufman, Cook, Arny, Jones e Pittinsky, 1994), mettono in luce la presenza di modalità resilienti spesso in contrasto l’una con l’altra e quindi in grado di far dubitare della veridicità e dell’esaustività del costrutto.

L’esistenza di irregolarità del funzionamento nell’ambito di differenti domini, pur essendo presente, non invalida il costrutto di resilienza, tuttavia mette i ricercatori nella condizione di dover specificare nei loro studi, la particolare area cui fanno riferimento (Cicchetti e Garmezy, 1993; Luthar, 1993); in altre parole, si ritiene necessario incoraggiare gli stessi studiosi ad utilizzare termini appropriati e circoscritti tra i quali, “resilienza educativa” (Wang e Gordon, 1994), “resilienza emotiva” e “resilienza comportamentale” (Carpentieri, Mulhern, Douglas, Hanna e Fairdough, 1993) con l’intento di portare maggior precisione nella terminologia utilizzata comunemente in letteratura. Luthar et al. (2000) propongono una traiettoria di sviluppo caratterizzata da un appaiamento delle diverse dimensioni; al contrario, sembrerebbe in qualche modo irrealistico pensare di poter definire una traiettoria di sviluppo normale, anormale o resiliente sulla base di una progressione non uniforme delle diverse capacità cognitive, comportamentali ed emotive.

Misurare la resilienza

Per approdare ad una disamina teorica del costrutto resilienza è stata realizzata una rassegna degli strumenti realizzati – in ambito internazionale – negli ultimi 15 anni.

Nella Tabella 1 – Riepilogo degli strumenti di misurazione della resilienza, sono riportati gli strumenti di misurazione in ordine cronologico. Ciascuno strumento è classificato su aspetti descrittivi: Nome dello strumento, Anno, Autori, Formato di risposta, Campione, Fattori (Numero, Nome e Attendibilità).

La Dispositional Resilience Scale (DRS; Bartone, 1989), nella sua versione originale, rappresenta il primo strumento di valutazione della resilienza. Tale scala si propone di misurare la resilienza in termini di resistenza psicologica, ovvero uno stile di funzionamento generale che include qualità cognitive, emotive e comportamentali. Lo stile “resistente” fa riferimento a tre dimensioni: Commitment, Controllo e Sfida. Il commitment indica la tendenza a vedere il mondo con interesse e significato; il controllo rappresenta la credenza nelle proprie abilità di influenzare gli eventi; infine, la sfida può essere considerata come la capacità di vedere nuove esperienze quali possibilità di apprendimento e sviluppo (Bartone, 1989).

La DRS15-R rappresenta l’ultima versione disponibile dello strumento, tuttavia sono state effettuate numerose rivisitazioni, passando dalla DRS-45 item, alla DRS-30 item, fino a giungere alla DRS-15 item, di cui è presente una validazione effettuata su studenti norvegesi; esistono, inoltre, una versione francese e norvegese della scala.

Nonostante sia uno strumento di lontana costruzione, la Resilience Scale (RS; Wagnild e Young, 1993) può essere considerata la scala maggiormente accreditata in letteratura; esiste, infatti, una versione spagnola, una russa e una svedese dello strumento, nonché numerose applicazioni su soggetti di età, genere ed etnia differenti (Ahern, Kiehl, Sole, e Byers, 2006). Le numerose applicazioni sono state condotte su immigrati russi (Aroian e Norris, 2000), madri di adolescenti (Black e Ford-Gilboe, 2004), immigrati irlandesi (Christopher, 2000), donne anziane (Felten e Hall, 2001), caregiver di anziani affetti da Alzheimer (Garity, 1997), donne messicane depresse (Heilemann, Lee e Kury, 2002), adolescenti (Hunter e Chandler, 1999), donne sovietiche di mezza età (Miller e Chandler, 2002), adolescenti senza una casa (Rew, Taylor-Sheehafer e Thomas e Yockey, 2001), madri di militari (Schachman, Lee e Lederman, 2004) e soggetti anziani (Wagnild, 2003); inoltre, sono presenti in letteratura le validazioni della versione russa e spagnola, entrambe dotate di una buona consistenza interna (Aroian, Schappler-Morris, Neary, Spitzer e Tran, 1997; Heilemann, Lee e Kury, 2003).

È proprio da uno studio critico condotto sulla Resilence Scale che nasce l’esigenza di creare un nuovo strumento che sia valido e attendibile per il suo utilizzo in adolescenza; lo strumento in questione è l’H&H Resilience Screening Tool (H&H RST; Hurtes e Allen, 2001) una scala costituita da nove dimensioni: Creatività, Humor, Indipendenza, Iniziativa, Insight, Relazioni, Valori, Autostima e Autoefficacia. Uno dei vantaggi più evidenti di tale strumento è la sua applicabilità, il campione di validazione è costituito, infatti, da individui di provenienza caucasica, africana ed asiatica (Hunter e Chandler, 1999; Luthar e Suchman, 2001; Wolin S.J e Wolin S., 1993).

Tra gli altri strumenti è presente, in letteratura, la Ego Resiliency ScaleER89 – una scala unidimensionale incentrata sul concetto di egoresilienza; punteggi alti su questa scala indicano un’alta capacità di saper gestire le avversità, punteggi bassi, invece, corrispondono ad una difficoltà di controllo emotivo nelle situazioni stressanti (Block e Kremen, 1996).

Col nuovo millenio gli studi sulla resilienza sono divenuti certamente più cospicui, ne è testimonianza una certa proliferazione di strumenti, tra i quali la Baruth Protective Factors InventoryBPFI – di Baruth e Carrol (2002), una scala designata allo scopo di misurare la capacità di far fronte allo stress in una modalità altamente adattiva; tuttavia, a causa della sua brevità, la scala presenta bassi standard di attendibilità e validità; inoltre, non sembrano essere presenti applicazioni in letteratura (Ahern et al., 2006).

Altro strumento è la Multidimensional Trauma Recovery and Resiliency Scale (MTRRS; Harvey, Westen, Lebowitz, Saunders, Avi-Yonah e Harney, 1994; Harvey, Liang, Harney, Koenan, Tummala-Narra e Lebowitz, 2003), la quale avvelendosi di un’intervista clinica strutturata (MTRRI-I) e di un Q-sort (MTRR-135) mira a valutare la resilienza, intesa come recupero dal trauma. La MTRR-99, versione ridotta della MTRR-135, oltre ad essere più accessibile della precedente, permette di valutare le caratteristiche affettive, cognitive e comportamentali descritte dalla teoria dello stesso Autore, in campioni clinici e non clinici (Harvey, 1996); il basso numero di partecipanti in specifici sottogruppi del campione non permette, tuttavia, di generalizzarne i risultati.

Una scala designata appositamente per l’uso nell’ambito clinico è, inoltre, la Connor-Davidson Resilience ScaleCD-RISC – di Connor e Davidson (2003). Nella sua versione originale lo strumento è stato costruito sulla base di numerosi fonti teoriche: necessario è stato il lavoro di Kobasa in relazione alla resistenza psicologica, dimensione che comprende a sua volta il controllo, il commitment e la sfida (Kobasa, 1979); altre caratteristiche sono state, poi, estrapolate dalla ricerca di Rutter (1985), il quale si è focalizzato su strategie quali l’orientamento all’azione, la forte autostima, l’adattabilità, l’abilità di problem-solving sociale, lo humor, la presa di responsabilità di fronte allo stress, i legami affettivi stabili e sicuri e le precedenti esperienze di successo; da altri studi, infine, sono stati formulati gli item relativi alla pazienza e all’abilità di sopportare lo stress.

Tra le diverse applicazioni in letteratura si considerano: la valutazione del disturbo post-traumatico da stress (Connor e Davidson, 2001) e il trattamento del disturbo d’ansia, oltre all’adattamento effettuato in Cina (Xiaonan e Jianxin, 2007), la CD-RISC-10, la versione ridotta della scala (Campbell-Sills, 2007) e, infine, la CD-RISC-2, una versione composta da soli 2 item, utilizzata prevalentemente per valutare la resilienza nel trattamento con psicofarmaci (Vaishnavi, Connor e Davidson, 2007).

In accordo con gli Autori (Friborg, Hjemdal, Rosenvinge e Martinussen, 2003), la Resilience Scale for AdultRSA – sembra essere una misura valida e attendibile nell’ambito della psicologia clinica. Oltre la versione originale, la RSA prevede una versione rivisitata allo scopo di ridurre i problemi di acquiescenza (Friborg, Barlang, Martinussen, Rosenvinge e Hjemdal, 2005); ad ogni modo, la presenza di un campione troppo specifico sembra determinare una scarsa possibilità di generalizzazione dei risultati (Ahern et al., 2006).

A partire dai 41 item della RSA (Friborg et al., 2003) è stato, poi, sviluppato un nuovo strumento di valutazione della resilienza: la Resilience Scale for AdolescentREAD; tale scala, rifacendosi al paradigma dei fattori protettivi, si propone di misurare le variabili che presentano un impatto positivo in adolescenza; a tale proposito, gli Autori, effettuando delle analisi sulla RSA, hanno confermato la consistenza delle cinque dimensioni precedentemente rintracciate: Competenze personali, Stile strutturato, Competenze sociali, Coesione familiare e, infine, Supporto sociale (Friborg, Martinussen e Rosenvinge, 2006).

Un altro strumento, creato appositamente per lo studio della resilienza in adolescenza, è l’Adolescent Resilience Scale – ARS – una scala costruita e validata esclusivamente in Giappone e pertanto dai risultati difficilmente generalizzabili (Oshio, Kaneko, Nagamine e Nakaya, 2002); tuttavia, le buone qualità psicometriche dello strumento sembrano supportare il costrutto della resilienza nella fascia d’età giovanile.

L’ultima scala presa in considerazione in questa revisione è la Brief Resilient Coping ScaleBRCS – la quale si propone di misurare la resilienza in relazione ai fattori protettivi; secondo gli stessi Autori la scala necessita però di ulteriori investigazioni (Sinclaire e Wallston, 2004).

Conclusioni

Dalla disamina critica della letteratura appare evidente, nonostante la resilienza rappresenti un costrutto di recente definizione, come la varietà dei modelli teorici e degli strumenti di misurazione sia certamente molto vasta.

Lo strumento maggiormente accreditato per lo studio della resilienza negli adolescenti è la Resilience Scale, sia per le buone caratteristiche psicometriche che per la molteplicità di applicazioni (Ahern et al., 2006). Tuttavia, alcuni Autori ritengono che l’uso della RS in adolescenza non sia da considerarsi così attendibile, dal momento che la scala sembra misurare il livello di self-sufficiency piuttosto che quello di resilienza; allo scopo di superare tali limiti, Hurtes e Allen (2001) propongono un nuovo strumento validato su una vasta popolazione multietnica composta prevalentemente da bambini ed adolescenti, l’H&H Resilience Screening Tool.

A partire dalla review proposta da Ahern et al. (2006), tre sembrano essere le scale di misura maggiormente accreditate dopo la RS: l’Adolescent Resilience Scale, la Connor-Davidson Resilience Scale e la Resilience Scale for Adult; tali strumenti, nonostante presentino una buona validità, necessitano di maggiori investigazioni riguardo la loro applicazione in adolescenza.

Un parametro di valutazione interessante è certamente relativo alle basi teoriche che sottendono l’uso di tali strumenti. La ricerca, in tal senso, si poggia su diversi domini di interesse: dallo studio dei fattori protettivi (Friborg et al., 2003) a quello delle strategie di coping (Oshio et al., 2002; Connor e Davidson, 2003), dalla valutazione della resilienza come resistenza psicologica (Kobasa, 1979) alla considerazione della stessa come caratteristica positiva di personalità (Wagnild e Young, 1990; Wagnild et al., 1993).

È evidente come tali osservazioni portino alla costruzione di un paradigma teorico molto ricco di sfaccettature, ma che, nonostante ciò, manifesta ancora molti limiti nelle procedure di misurazione, sia in relazione agli aspetti psicometrici che agli aspetti contenutistici.

Innanzitutto, molti degli studi di validazione non presentano indicazioni dettagliate sul campione di validazione. Alcuni strumenti sono stati validati con un numero di partecipanti esiguo soprattutto se comparato con il numero di item sottoposto ad analisi fattoriale. Ad esempio, la MTRR-99 prevede un rapporto tra item e soggetti pari a r=1.82. Trasversalmente gli Autori non si sono posti il problema della distribuzione normale degli item e – soprattutto – non hanno mai verificato se la struttura fattoriale risulti simile in relazione al genere.

Molti degli strumenti sono stati validati con campioni particolari (soggetti ospedalizzati o vittime di violenza) e non presentano i dati relativi alla struttura fattoriale con campioni relativi alla popolazione generale, come, ad esempio, la BRCS e la RSA.

In relazione al contenuto, gli strumenti presentano un’elevata eterogeneità in relazione alle dimensioni che li compongono. Gli 11 strumenti presentati presentano un totale di 47 fattori, di cui ben 23 ricorrono soltanto una volta.

Come si evince dalla Tabella 2 – Riepilogo delle dimensioni registrate, le dimensioni più ricorrenti sono: Competenze personali (4), Supporto sociale (4) le dimensioni legate al cambiamento (3), alla regolazione (3) , alla fiducia in sé, sia specifica (Autoefficacia, 2) sia generale (Autostima, 2) e infine Competenze sociali (2). Se compariamo le dimensioni rintracciate con i modelli descritti appare una sensibile distanza tra i modelli teorici e gli strumenti di rilevazione.

L’analisi della recente letteratura mette in evidenza come la molteplicità di definizioni relative alla resilienza porti necessariamente delle difficoltà nell’operazionalizzazione e quindi nella misurazione del costrutto. La multidimensionalità del costrutto ha portato gli studiosi a produrre definizioni molto dettagliate e modelli molto complessi. Tuttavia, gli strumenti emersi dalla rassegna sembrerebbero non essere coerenti con nessuno dei modelli precedentemente descritti.

Nonostante ciò lo studio della resilienza non sembra presentare solo limiti, ma anche delle importanti implicazioni teoriche.

Concettualmente il costrutto resilienza è un termine che può far riflettere, non solo perché ancora poco usato all’interno dei contesti che si occupano di processi di formazione e di orientamento, ma anche perché, in tale ambito, rimanda ad una realtà – quella del “cambiamento” – che innesca dinamiche di autoeducazione molto importanti.

Per comprendere a fondo tale assunto diviene necessario descrivere i problemi in maniera diversa rispetto al modo in cui ci hanno insegnato, e convincerci che ogni evento che ci accade esiste sempre in relazione ad un’interpretazione che lo coglie e lo fa esistere. Nell’ambito di una prospettiva costruttivista, quindi, il sapere viene inteso come una costruzione personale: si abbandona l’idea di un sapere obiettivo e sovrapersonale per affermare, invece, la convinzione che i saperi vengono costruiti e sono il risultato di un’interpretazione – una delle possibili – della propria esperienza.

Questa osservazione porta a riconoscere che il compito fondamentale di chi vive una situazione problematica è quello di “costruirsi” un’altra realtà, un nuovo modello per affrontarla, un nuovo punto di vista che permetta di offrirle un senso. Per fare i conti con il proprio accaduto è, dunque, importante attivare una forma di dialogo interiore, una narrazione che possa esprimersi ed essere socializzata.

Nelle scienze sociali e in particolar modo nell’ambito dell’orientamento, la narrazione diventa, pertanto, un fattore di resilienza; in altre parole, nell’atto di raccontare, ognuno di noi costruisce un mondo che non corrisponde esattamente alla realtà e tuttavia non è neppure il frutto di un’illusione.

Sta qui il senso del lavoro educativo con persone che hanno subito traumi o devono affrontare scelte di vita difficili: aiutarle a rappresentare il loro disagio socializzandolo e trasformandolo in evento sensato, proprio perché rappresentabile.

In altre parole, attraverso la resilienza è possibile guardare con occhi diversi gli eventi traumatici. I fattori di rischio non sempre sono inequivocabilmente predittivi di effetti negativi ma insieme ai fattori protettivi, possono portare il soggetto ad incrementare le proprie capacità di fronteggiamento degli eventi traumatici.

La resilienza, vista in quest’ottica, può essere utilizzata come dimensione centrale nell’ambito dell’orientamento, in relazione alla gestione della carriera.

Il concetto di resilience carrier (Waterman, 1994, cit. in Duarte, 2008) dovrebbe rappresentare la possibilità per l’individuo di adattamento ad un nuovo ambiente, quale è la recente organizzazione del lavoro senza barriere.

In un contesto caratterizzato da precarietà e caos professionale, la resilienza sembra supportare la costruzione di nuove prospettive, sia lavorative sia personali, nell’ottica di un continuo investimento di risorse. Ed è per tali ragioni che Duarte (2008), citando una famosa frase di Galileo Galilei, sostiene che “dietro ad ogni problema c’è un’opportunità”.

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