di Andrea Laudadio, Rita Porcelli, Marco Amendola
«Una fotografia è sempre un’immagine duplice:
mostra il suo oggetto
e – più o meno visibile –
dietro,
il controscatto:
l’immagine di colui che fotografa
al momento della ripresa».
– Wim Wenders, To Shot Picture
Un tema trasversale che interessa, in forme diverse, tanto le attività di ricerca quanto le azioni di intervento professionale, è quello della valutazione. All’interno di tale diversità, un elemento di continuità è costituito dalla connotazione strategica che assume l’attività di valutazione in termini di riprogettazione di interventi, cioè a dire la necessità di mettere a punto, in un’ottica di processo, azioni professionali che siano coerenti rispetto al loro intento generale, tradotto in obiettivi specifici. Tuttavia la valutazione, così come in altri ambiti, soprattutto se pensata in termini di processo e in relazione agli attori che ne sono coinvolti, porta con sé una resistenza, probabilmente dovuta al fatto che, come sostiene Avallone (1996) in forma di assioma, la valutazione espone sia il valutato che il valutatore.
Numerose sono le ragioni a sostegno della necessità di allestire procedure di valutazione nelle pratiche di intervento, così come in altri ambiti ma, prendendo in prestito una riflessione di Palumbo (2001), sembrando riconducibili a due: da una parte c’è la necessità istituzionale di rendere conto relativamente a un investimento sostenuto o, in altri termini, quella di rendere trasparente alla comunità in che modo si è risposto ad una richiesta del sistema; dall’altra c’è la volontà, oltre naturalmente alla necessità, che un progetto portato a termine costituisca anche una esperienza di crescita, ovvero una occasione di apprendimento complessivo per il sistema che lo ha sostenuto, in un’ottica di progresso (Guichard, Huteau, 2001).
In questo capitolo, a partire da una riflessione a carattere teorico sulla valutazione in orientamento e analogamente ad altre precedenti esperienze nella progettazione e sperimentazione di pratiche o percorsi orientativi (Grimaldi, Rossi, 2004; Laudadio, Amendola, Porcelli, Grimaldi, 2005), si vogliono ripercorrere le ragioni che hanno guidato la messa a punto dell’impianto di valutazione della pratica di gruppo “PensareilFuturo”, presentata in questo volume, e le riflessioni che scaturiscono dalle procedure di valutazione messe in atto.
4.1 Qualità e quantità, paradigmi e metodi.
Bezzi (2001), nel tentativo di sistematizzare una serie di definizioni presenti in letteratura su questo tema, fornisce la seguente definizione di valutazione, rispetto alla quale saranno successivamente evidenziati alcuni aspetti che a nostro avviso sono rilevanti per esplicitare le ragioni che hanno sostenuto l’impianto di valutazione messo a punto nella sperimentazione della pratica.
«[…] principalmente (ma non esclusivamente) un’attività di ricerca sociale applicata, realizzata, nell’ambito di un processo decisionale, in maniera integrata con le fasi di programmazione, progettazione e intervento, avente come scopo la riduzione della complessità decisionale attraverso l’analisi degli effetti diretti ed indiretti, attesi e non attesi, voluti o non voluti, dell’azione, compresi quelli non riconducibili ad aspetti materiali; in questo contesto la valutazione assume il ruolo peculiare di strumento partecipato di giudizio di azioni socialmente rilevanti, accettando necessariamente le conseguenze operative relative al rapporto fra decisori, operatori e beneficiari dell’azione».
Sulla base della definizione appena proposta la valutazione consiste quindi in un processo complesso all’interno del quale sono rintracciabili almeno due momenti: un primo, di raccolta dati, in grado di sintetizzare l’intervento; un secondo, momento della formulazione del giudizio, articolato sulla base dei dati raccolti (Bulgarelli, 1996). Così come sembra evidente in questa forma, se la formulazione del giudizio sembra essere successiva alla fase di raccolta dei dati, la distinzione tra i due momenti sembrerebbe evocare quella modalità di procedura che nella ricerca sociale ha originato la Grounded Theory (cfr. Strass e Corbin, 1990). Secondo i referenti teorici di tale teoria[1], così come riportato da Strati (1997), il fenomeno sociale non dovrebbe essere tradotto nel linguaggio delle variabili poiché la variabile – con i suoi caratteri di neutralità e oggettività – non costituisce la base di un discorso sociologico complesso.
Al tempo stesso, secondo alcuni autori, questo metodo di procedere mancherebbe di scientificità, in quanto il metodo scientifico sarebbe esclusivamente quello basato sulla falsificazione (Popper, 1959) di una ipotesi precedentemente formulata sulla base di una teoria scientifica, definibile come un insieme interrelato di concetti, definizioni, e proposizioni che forniscono una visione sistematica dei fenomeni, specificando le relazioni fra le variabili con lo scopo di spiegare e prevedere i fenomeni stessi (Kerlinger, 1964). Accettare questa seconda posizione significherebbe adottare un ordine capovolto rispetto al precedente, ovvero distinguere la fase della formulazione di giudizio in due momenti: un primo momento, preliminare alla fase di raccolta dei dati (formulazione dell’ipotesi) o di definizione degli obiettivi (Guichard, Huteau, 2001) e un secondo, successivo a quello della raccolta dei dati (formulazione di un giudizio sulla base della falsificazione dell’ipotesi sulla base dei dati registrati).
Anche la valutazione, pertanto, se si accetta la riduzione di complessità nelle due posizioni appena descritte, impone una scelta di paradigma. Nella definizione di Guba e Lincoln (1994), che definiscono i paradigmi come un insieme di credenze di base che definiscono la natura del mondo e della conoscenza, e che fissano i limiti dell’indagine stessa, esistono quattro paradigmi chiave della ricerca psicosociale contemporanea – positivismo, neopositivismo, teorie critiche e costruttivismo – sintetizzabili in tre quesiti fondamentali: «Qual è la natura della realtà e che cosa possiamo conoscere di essa?» (quesito ontologico); «Qual è la natura della relazione fra colui che conosce e ciò che può essere conosciuto?» (quesito epistemologico); «Come può l’investigatore scoprire quello che ritiene possa essere conosciuto?» (quesito metodologico).
Al di là della scelta di paradigma che può essere adottata nell’ambito della ricerca psicosociale, quello che ci interessa sottolineare in questa sede, tenendo presente la definizione di valutazione proposta all’inizio, è che ciascuna delle scelte può essere legittimamente perseguita nell’ambito della valutazione.
Ne consegue che il dibattito aperto tra sostenitori dei metodi qualitativi e quantitativi, così come il tentativo di superamento di tale dicotomia a favore di una prospettiva[2] integrata tra qualitativo e quantitativo (Cipolla, De Lillo, 1996) che segni il passaggio da una contrapposizione bipolare ad una integrazione tra i due metodi (Mazzara, 2002), è estendibile anche al tema della valutazione.
La definizione di Bezzi, inoltre, fornisce una ulteriore suggestione: la valutazione non dovrebbe essere centrata in modo esclusivo sugli obiettivi iniziali dell’attività ma, piuttosto, deve prendere in considerazione anche gli aspetti non voluti, non attesi e indiretti. Il limite posto dalla realtà per il quale è impossibile osservare “tutto”, impone anche al “valutatore” di selezionare una porzione della relazione azione-contesto ed esprimere un giudizio su tale relazione. L’ampiezza della porzione di relazione che vuole essere oggetto di valutazione esprimerà il livello di sensibilità che la valutazione sarà in grado di esprimere: quanto più ampio sarà lo spazio della relazione posto sotto analisi, con i limiti che questo comporta sul piano della fattibilità, tanto maggiore sarà la sensibilità dell’attività valutativa.
Tuttavia la questione più rilevante in un processo valutativo è senza dubbio quella dell’oggetto della valutazione, cioè definire cosa valutare. Secondo Palumbo (2001) le tipologie di valutazione sono sostanzialmente due: una centrata sull’efficacia e un’altra sull’efficienza. La prima – in termini relazionali – si interroga su quanto l’intervento ha saputo rispondere alle necessità espresse dal contesto; la seconda, su quanto l’intervento è appropriato e congruente con il contesto, soprattutto in termini di risorse.
4.2 La valutazione della pratica
Il processo di valutazione della Pratica ISFOL – “PensareilFuturo” – esprime la volontà di evidenziare gli elementi che nella relazione utente-percorso hanno “funzionato” meglio (e quindi anche quelli che hanno funzionato meno bene) soprattutto in una prospettiva di replicabilità della pratica.
Rispetto all’intento appena formulato appare evidente come il “committente” di questo intervento valutativo sia l’ideatore del percorso stesso e che pertanto il mandato sia quello di cercare di individuare soprattutto le criticità progettuali e gli elementi che potrebbero ostacolarne la diffusione.
Essendo la valutazione parte integrante dell’attività di progettazione è stato possibile coinvolgere tutti gli stakeholder – cioè a dire coloro che hanno partecipato alla progettazione e realizzazione del percorso – nonché gli utenti di questa prima sperimentazione.
Il parere degli utenti
Al fine di esplorare il parere degli utenti rispetto ad alcuni ambiti di interesse è stata utilizzata la tecnica del focus group[3].
Nello specifico sono stati realizzati quattro focus, uno per ciascuna delle quattro tipologie di destinatari del percorso (adulti in transizione, lavoratori atipici, neo laureati e disoccupati). A distanza di circa otto mesi dall’ultimo incontro, sono stati ricontattati ed invitati a partecipare ad un incontro con l’obiettivo di attivare un confronto sull’esperienza vissuta. Hanno risposto al nostro invito tutti i soggetti, hanno però partecipato ai focus circa il 50% degli stessi. Coloro che non hanno potuto partecipare hanno però risposto al nostro invito di fornirci alcuni feedback rispetto all’esperienza. Le motivazioni fornite dagli utenti (tipicamente inviate per posta elettronica) sono state oggetto di una particolare attenzione da parte dell’equipe di lavoro e sono state presentate nell’ambito dei focus al fine di poterle condividere.
All’interno dei vari focus sono state esplorate tre aree di interesse:
- Giudizio complessivo verso il percorso e specifico riguardo alle salienze del percorso (ovvero cosa i soggetti ricordavano meglio o, comunque, per primo)
- Gli “effetti” percepiti del percorso e in particolare, ripercorrendo lo studio di Gaudron e Bernard (1997), sono stati tre gli ambiti che si è cercato di indagare in questa area: in primo luogo gli effetti sulla rappresentazione delle competenze e dei centri di interesse; quindi gli effetti sul progetto professionale; per ultimo, gli effetti sul comportamento concreto nei confronti del mercato del lavoro.
- La relazione con il gruppo
Complessivamente i giudizi forniti dai partecipanti ai quattro focus group nei confronti del percorso sono positivi. Ne riportiamo alcuni a titolo esemplificativo:
“…Per quanto riguarda l’esperienza che abbiamo fatto, sicuramente interessante e piacevole, mi è rimasto un ricordo positivo”.
“Sono arrivata una anno fa a Roma, e la prima cosa che mi hanno detto le mie cugine è stato: “Tu puoi fare solo la badante alla tua età, e questo per me è stato uno schock……….Poi, dopo il corso….. sono andata alla chiesa americana, ed ho cominciato a dare curriculum a tutti, e devo dire qualche offerta è arrivata. Queste giornate mi sono servite a non credere solo alle parole dure dei miei cugini e di coloro che dicono solo quello che sanno….Ho cominciato a vincere la paura”.
“un’esperienza positiva per una cosa che io ho reputato sempre importante, per me lavorare insieme è un momento molto importante. Lo riscontro anche sul lavoro: purtroppo tante volte sul lavoro non è sempre possibile, non tutti reputano quello che per me può essere importante.
Reputo il confronto tra le parti sia indispensabile…”
E’ tuttavia doveroso notare come esista una significativa differenza di atteggiamento nei confronti del percorso in relazione alle aspettative possedute prima di iniziare. Sono infatti, i soggetti che avevano aspettative più “concrete” o, per meglio dire, centrate sulla possibilità che il corso potesse rappresentare una occasione concreta per trovare o cambiare lavoro, ad essere più critici nei confronti del percorso. Questo risultato è in linea con alcuni studi di Kop e collaboratori (1997) che avevano già evidenziato come le aspettative nei confronti dei percorsi di orientamento (e di bilancio in particolare) siano fortemente in relazione con il giudizio complessivo di utilità formulato a distanza dell’esperienza.
“……mi aspettavo dal percorso una metodologia che permettesse di confrontarmi con altre persone e altri approcci. Di vedere come presentarmi nel mondo del lavoro…”
“…Praticamente io prima del corso avevo degli obiettivi chiari, fare una impresa di importazione ed esportazione. Io pensavo che il corso dovesse essere più tecnico. Le mie aspettative erano di tipo tecnico. …..”
Di contro, sono coloro che pensavano al percorso come ad una opportunità per conoscere meglio se stessi ad avere i maggiori livelli di soddisfazione.
“Pensavo di lavorare nel cinema ma non conoscevo le figure professionali in tale campo, avevo il dubbio che forse sarebbe stato un peccato come mi dicevano, non utilizzare la mia preparazione universitaria sostenuta dalla compiuta pratica forense. Lavorare nel cinema avrebbe richiesto una nuova qualificazione. Insomma mi ponevo sempre domande…
adesso
…..Ho trovato il mio lavoro ideale, sono la segretaria di un avvocato molto importante che oltre che a svolgere la professione forense, è membro del consiglio di amministrazione di molte delle più importanti società per azioni italiane legate alla cinematografia….”
Trasversalmente i ricordi sono nella maggior parte dei casi in relazione alle attività in cui hanno potuto riflettere su se stessi o comunque alle attività che, più di altre, hanno fornito delle indicazioni relative ad alcune dimensioni importanti come le strategie di coping, l’autoefficacia, ecc.:
«Mi è venuto in mente il gioco delle carte. Quello è stata una cosa molto carina, riscontrarsi in quel momento con vari tipi di esperienze, e come tu risponderesti a quel tipo di esperienza. Tante volte noi non ci pensiamo, però, effettivamente, ci sono dentro di noi sicuramente delle motivazioni che ci portano ad avere vari comportamenti.»
«Quello delle carte è stato simpatico, quello dell’albero l’ho trovato interessante anche se a primo impatto non capivo bene, poi però mi è sembrato carino, l’impatto visivo l’ho trovato carino. Nell’insieme ho trovato tutto costruttivo.»
«[…]gli strumenti sono stati buoni, hanno permesso di mettere a fuoco la nostra situazione lavorativa e di vedere gli obiettivi che ognuno di noi si prefigge. Poi ha funzionato anche perché ci ha dato la possibilità di conoscerci, anche attraverso la storia personale, perché poi sono nati dei rapporti.»
Come indicato da Tronti (2002) è possibile esplorare il livello di soddisfazione generale degli utenti sulla base del benessere individuale o collettivo percepito. Complessivamente sono molti i soggetti che hanno riferito miglioramenti complessivi del proprio benessere e che pongono l’esperienza come causa-concausa del miglioramento del livello generale di benessere percepito.
Rispetto agli effetti del corso in primo luogo è interessante notare come molti soggetti mettano in diretta relazione in percorso fatto con un aumento di chiarezza generale circa i propri interessi e riguardo la rappresentazione delle proprie competenze.
«Sicuramente è rimasto un patrimonio di conoscenza di me stesso che prima non riuscivo a vedere, in termini anche di limiti. Questo è uscito bene attraverso i nostri incontri, e poi sicuramente, è importante avere delle idee e degli strumenti per confrontarsi con la realtà».
“…nella mia enorme confusione mentale, sono molto confusionaria, sono una persona molto confusionaria, Quelle tre giornate mi ha aiutato a fare chiarezza…
Ho cominciato a darmi delle scadenze e fare degli schemi che in vita mia non ho mai fatto.”
Per alcuni soggetti il percorso è stata l’occasione per “fare il punto” e “confrontarsi”. Nello specifico gli ambiti circa i quali si è fatto il punto i soggetti riferiscono “i propri interessi”, “quello che so fare e non so fare”, “quello che voglio fare”, “quello che vorrei fare”:
“… il contesto mi ha portato ha mettermi in relazione con i progetti degli altri ragazzi e quindi mi sono reso conto che in effetti la strada che avevo cominciato a prendere cioè di cercare lavoro cosi’, devo strutturarla in maniera differente, cioè finire gli studi, specializzarmi per poter fare poi la professione che vorrei ricoprire in futuro.”
“Dall’esperienza fatta mi è rimasta la capacità di progettare. Il mio problema era se continuare a studiare e fare la specialistica o fermarmi alla triennale, ho deciso di continuare e quei tre giorni mi sono serviti per darmi delle scadenze e fare dei progetti, e scemi per finire gli esami.”
Rispetto al proprio progetto professionale è subito evidente come giochi un ruolo fondamentale il livello soggettivo di sviluppo di carriera. Mentre per alcuni soggetti il percorso ha costituito un momento di “definizione”, per altri è stato proprio un momento di “costruzione” e, per altri ancora, il percorso ha semplicemente fornito gli “strumenti per mettere a punto un progetto”. A quest’ultima categoria afferiscono coloro per i quali il progetto pensato durante il percorso non ha costituito altro che una palestra per l’analisi e lo sviluppo delle proprie competenze e metacompetenze di progettazione del proprio futuro professionale.
Rispetto alle azioni concrete circa il mercato del lavoro o, meglio, rispetto ai comportamenti che i soggetti hanno messo in atto o nella direzione di rendere concreto il proprio progetto o, comunque, di “attivazione concreta generale” nei confronti del mercato del lavoro, l’analisi dei risultati dei focus group offre due spaccati distinti.
Da una parte ci sono coloro per i quali comunque la pratica ha segnato un deciso cambio di tendenza nel comportamento e nell’atteggiamento nei confronti del mercato del lavoro:
«Io ho tentato di fare fruttare il significo dei nostri incontri . Sono partita in quarta.»
Dall’altra ci sono i soggetti per cui la pratica non ha favorito alcun cambiamento di comportamento:
«Dopo questa esperienza non ho appreso una maniera grintosa su come vendermi, ho continuato a muovermi come prima. Non avevo neanche riempito tutto la scheda del progetto.»
Rispetto a questo secondo gruppo c’è da dire che probabilmente sono state smarrite le finalità dell’intervento, come se l’analisi del bisogno iniziale del percorso e la riformulazione degli obiettivi avesse lasciato una traccia poco significativa. Nel gruppo dei neo-laureati infatti, pur avendo dedicato uno spazio significativo all’analisi della domanda iniziale, si è notato più di altri gruppi l’emergere continuo di un bisogno, che non poteva trovare soddisfazione nel percorso, ossia trarre da esso un titolo- paragonabile ad una sorta di diploma – spendibile nel proprio curriculum.
In relazione all’esperienza d’aula, limitatamente al fatto che si è trattato specificatamente di un percorso di gruppo, il discorso è più articolato. Bisogna infatti, distinguere tra due livelli di osservazione: quella in cui c’è il contributo offerto dal gruppo nella fase di accoglienza e accompagnamento e quella in cui il gruppo viene utilizzato con la funzione di sostegno, successiva alla conclusione del percorso.
Rispetto al gruppo volevo dire che la cosa che ti aiuta di più è sapere che ci sono altre persone nella tua stessa situazione, quindi condividere le tue motivazioni critiche, tirarle fuori, trarre dagli altri degli spunti che potrebbero applicarsi al tuo caso. Forse anche perché non eravamo tanti… .
E’ importante sentire l’altro, è diverso se senti che un’altra persona ha il tuo stesso problema.
C’è stata un’apertura nei confronti dell’altro che ha portato a farci dire delle cose intime che in un’altra situazione poteva non capitare. Non c’era nessuno che ci giudicava o che poteva manipolare quello che dicevamo. Quindi credo proprio che il piccolo gruppo abbia creato questa condizione, molto comunicativa, si stava bene, si rideva, si scherzava.”
Trasversalmente rispetto ai quattro gruppi iniziali il gruppo sembra avere assolto alla funzione di accoglienza e accompagnamento. Molti soggetti ricordano con piacere il gruppo ed il clima che si era creato. Rispetto al sostegno post-percorso la situazione è diversa: da una parte ci sono i neolaureati, lavoratori atipici, e adulti in transizione che, escludendo sporadici incontri limitati ad alcune persone, non avevano avuto ulteriori esperienze con il resto del gruppo; dall’altra troviamo il gruppo dei disoccupati, in cui gli incontri si sono protratti ben oltre la fine del percorso, e che ha visto anche una sorta di istituzionalizzazione del gruppo, essendo sorta, tra alcuni dei partecipanti, la volontà di costituire una piccola cooperativa.
Il parere degli operatori nella funzione di osservatori
Durante la sperimentazione è stato chiesto ad alcuni operatori (crediamo siano stati ringraziati nel capitolo della sperimentazione, se non è così è necessaria la nota) dei servizi di orientamento che hanno partecipato alla fase sperimentale, di assistere agli incontri in qualità di osservatori esterni.
A ciascuno dei percorsi, infatti, ha partecipato un operatore a cui è stato chiesto di osservare attivamente le varie tappe del percorso e di formulare su di esse delle riflessioni organizzate in una griglia di valutazione. Alla conclusione della sperimentazione è stata inoltre organizzata una riunione in cui sono state presentare le valutazioni generali e specifiche nei confronti della pratica.
La griglia era strutturata in modo da produrre indicazioni, su una scala a tre passi (scarsa, discreta ed elevata), rispetto a tre dimensioni: (a) chiarezza della proposta formativa, (b) coerenza della proposta formativa agli obiettivi e (c) clima del gruppo. Complessivamente tutti i moduli sono stati valutati tra il discreto e l’elevato; nessun modulo è stato considerato come distante/non coerente con le finalità esplicitate.
Le uniche criticità individuate dagli operatori sono, in larga misura, imputabili alla situazione sperimentale (ad esempio un operatore si chiede quanto sia corretto indicare ai soggetti la categoria sperimentale della quale fanno parte) oppure alla complessiva gestione del gruppo. Proprio in relazione a questo ultimo punto, nell’ultimo incontro si è dedicato uno spazio significato ai feedback degli operatori relativa alla possibile applicabilità di tale pratica all’interno dei C.P.I. e dei servizi di orientamento in generale: tutti sembrano concordi sull’utilità di un servizio di questo tipo anche se viene posta particolare attenzione da un lato alla formazione degli operatori e dall’altra ai setting ambientali – assetto organizzativo dei centri – che in alcuni casi non sono adeguati ad ospitare servizi di questo tipo.
4.3 Conclusioni o (meglio) valutazioni
La lettura trasversale dei focus group – in relazione alla pratica – suggerisce che questa ha sicuramente risposto all’obiettivo di attivare le persone rispetto al proprio futuro professionale.
Sulla base delle considerazioni avanzate, la pratica “PensareilFuturo”, pensata per essere realizzata nei Centri per l’Impiego o dei servizi per l’orientamento, comunque, aderisce ad uno dei due requisiti individuati (quello del gruppo omogeneo, non l’altro del contesto, tant’è che gli utenti vanno in sede).
Bibliografia
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Tronti (2002) valutazione pombeni
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Zammuner, V. L., (2003) I focus group. Il mulino, Bologna.
[1] Sotto il profilo metodologico – in estrema sintesi – la Grounded Theory prevede tre momenti: la raccolta dei dati e delle informazioni, la loro codifica in categorie e sottocategorie, e la loro analisi, in una interazione costante (circolare) tra le varie fasi. La Grounded Theory esprime il cuore della ricerca qualitativa, ovvero quello di lavorare in assenza di una vera ipotesi in un processo in cui, invece, si parte dal basso (Cicognani, 2002).
[2] Tale approccio sembra avere radici lontane: da un lato il «crollo dell’illusione della “scienza oggettiva”» (Pessa, 2004) e, dall’altro, l’avvento sul piano metodologico del modello sistemico, lasciano il posto ad un approccio “naturale” che non si pone l’obiettivo di ricondurre l’osservabile a leggi essenziali ma, piuttosto, a mantenere il livello di complessità dei fenomeni anche nelle leggi che li interpreta (Prigogine, 1986).
[3] Il focus group è una tecnica qualitativa di rilevazione dei dati, diffusa nella ricerca sociale, che si basa sulla raccolta delle informazioni che emergono da una intervista di gruppo su un tema che il ricercatore desidera indagare in profondità. In letteratura non è possibile rintracciarne una definizione univoca, ma numerosi ricercatori (Krueger, 1994; Greenbaum, 1998; Barbour e Kitzinger, 1999) concordano nell’affermare che tale metodo di ricerca coinvolge da quattro a dodici persone, in una situazione di gruppo, che si riuniscono in un giorno prestabilito e, con l’aiuto di un moderatore, discutono di un argomento in un ambiente informale, “permissivo”. Le informazioni fornite dai partecipanti durante la discussione costituiscono i dati del focus group, che si rivela pertanto particolarmente utile per esplorare in modo approfondito le opinioni, gli atteggiamenti o i comportamenti della collettività e le motivazioni sottostanti al pensiero ed al comportamento umano (Zammuner, 2004).