La Fede come dimensione centrale del benessere psicologico individuale

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Dettagli:

di Francisco Javier Fiz Pérez; Andrea Laudadio

1. Premessa

Oltre cento anni fa William James sostenne che la religione «previene certe forme di malattia, così come la scienza» [1]. Da allora numerosi studi scientifici hanno esplorato la relazione tra religiosità e salute degli individui, ma è soprattutto negli ultimi venti anni che si è assistito a una forte crescita di questi studi, soprattutto incentrati sul legame tra religione e longevità [2].

Nell’ambito della letteratura medica e psicologica, sono numerosi i tentativi di esplorare la relazione tra le dimensioni religiose e la condizione medica generale [3], la salute psichica [4] o – più in generale – il benessere psicologico [5].

Anche se la maggior parte degli studi analizzati ha rilevato una correlazione positiva tra la spiritualità (e/o la religiosità) e le dimensioni psicologiche o fisiche del benessere e della salute, alcuni studi non hanno rintracciato questa relazione [6].

Questa difformità nei risultati è in larga parte dovuta all’eterogeneità di operazionalizzazione delle variabili in questione [7].

La religiosità rappresenta un costrutto multidimensionale e molto complesso e, come tale, implica la possibilità che alcuni aspetti di esso siano relazionati in maniera differente al benessere psichico o fisico degli individui.

Se accettiamo questo presupposto, secondo Pargament [8] è necessario indagare quali siano le specifiche variabili della vita religiosa degli individui che possono essere correlate ai diversi aspetti del benessere psicologico. Prima di approfondire la relazione specifica tra benessere psicologico e Fede in Dio, riteniamo opportuno presentare una rassegna dei principali studi disponibili nella letteratura scientifica relativi al rapporto tra Fede e salute (fisica o psichica).

2. Fede in Dio e condizione medica generale

Da diversi studi sembrerebbe emergere una maggiore longevità dei soggetti che frequentano i luoghi di culto [9] e, più in generale, una migliore salute fisica [10] e psichica [11].

Recentemente, è stato evidenziato come gli allievi universitari con alti livelli di partecipazione agli impegni religiosi fanno registrare una migliore salute mentale oltre a un minore consumo di alcool e una maggiore attività sportiva [12], risultati peraltro confermati da ulteriori studi che hanno associato la spiritualità ad un minore consumo di alcool e tabacco [13]. La Fede in Dio è positivamente connessa con il recupero – sopratutto a lungo termine – di ex-acoolisti [14] e risultati simili sono stati registrati anche con campioni di adolescenti [15].

In rapporto ai disordini alimentari, alcuni autori hanno evidenziato come questi siano in relazione alle dimensioni della spiritualità e della religiosità [16]. I soggetti con alta religiosità sembrerebbero essere meno preoccupati delle dimensioni del proprio corpo e, al contrario, più concentrati sulla loro funzione sociale, risultati in linea con quanto evidenziato da Jerslid (2001), ossia che il dolore, la fame, la rabbia e l’auto-cura sono temi comuni sia della spiritualità sia dei disordini alimentari (ovviamente, in modo inverso). Secondo l’autore, i pazienti con disturbi alimentari desiderano esprimere il loro dolore e la loro mancanza di controllo con un’abitudine alimentare non sana; una persona spirituale in buona salute ritroverebbe il controllo di sé avendo fede, ricercando i motivi della sua rabbia senza scaricarla sul cibo [17].

Riguardo al decorso ospedaliero e, più precisamente, al momento della comunicazione della diagnosi, sembrerebbe esistere una relazione tra religione, spiritualità e reazione alla conoscenza della malattia. Da una recente ricerca svolta dal National Cancer Institute (2007) emerge che i soggetti con bassa spiritualità e religiosità risultano maggiormente afflitti dalla scoperta della malattia rispetto a soggetti più spirituali o religiosi [18]. Anche se con profonde differenze in relazione all’etnia di appartenenza, la religiosità e la spiritualità sembrerebbero giocare un ruolo importante nella gestione della malattia da parte dei pazienti ospedalizzati [19]. Inoltre, sembrerebbe emergere anche una relazione tra religiosità e recupero post-operatorio, con un effetto positivo sullo stress da parte della religiosità e spiritualità [20].

Oltre agli studi su pazienti, numerose ricerche sono state effettuate in ambito prettamente nosocomiale, analizzando comportamenti e stati d’animo del personale ospedaliero. Secondo una recente ricerca, il benessere spirituale delle infermiere assicura un atteggiamento positivo dei malati nell’affrontare le cure mediche, aiuta a sopportare l’afflizione spirituale dei soggetti orientandoli verso la guarigione [21], risultati simili sono stati registrati con medici appartenenti alle case di cura [22].

3. Fede in Dio e salute psicologica

La religiosità è inversamente correlata con la depressione [23] e con l’ansia della morte [24]. Infatti, la partecipazione alle funzioni religiose (per le donne) aiuterebbe a ridurre i sintomi depressivi [25].

Un individuo religioso ha maggiori probabilità di sperimentare una crescita individuale a seguito di un evento traumatico [26] e, spesso, questa crescita è accompagnata da uno sviluppo della propria religiosità [27]. In seguito ad un evento stressante le persone con alta religiosità e/o spiritualità faranno un maggior ricorso al coping religioso e cercheranno un maggiore coinvolgimento nella comunità religiosa, importante risorsa di supporto sociale, sia psicologico sia concreto [28].

Tra i fattori protettivi rispetto ai traumi di guerra, oltre alle attitudini verso la violenza, all’ideologia politica e all’appartenenza a una comunità culturale sono collocate le credenze religiose [29]. Per Kanter (1976) i sopravvissuti alla Shoah che avevano una forte identità etnica ed erano consapevoli del loro patrimonio culturale e religioso dimostravano una minore vulnerabilità rispetto ai traumi psichici [30]. Per le persone sopravvissute le credenze religiose avevano giocato il ruolo di fattore protettivo aiutandole a dare un significato alla loro esperienza. Risultati simili sono stati registrati rispetto ai sopravvissuti al genocidio armeno [31]. Una persona religiosa, a seguito di un evento traumatico, può cessare di credere nell’esistenza di Dio o, purtroppo, iniziare a pensare a Dio come meno potente o giusto, ma può – soprattutto – accadere che, a seguito di un trauma, un individuo si converta o si avvicini alla religione per cercare delle risposte ai suoi problemi [32].

Alcune ricerche hanno registrato come le dimensioni religiose siano strumentali nel creare una speranza nell’ambito di esperienze di vita stressanti: in uno studio condotto su pazienti affetti da tumore, gli autori mostrano come 17 pazienti su 28 siano stati facilitati dalla loro fede religiosa ad affrontare ed accettare la propria malattia [33]. Similmente, in uno studio su malati terminali di cancro hanno verificato che i soggetti con alti livelli di fede religiosa riportino una più alta qualità della vita in famiglia e nella sfera spirituale e psicologica [34]; altri risultati indicano come la religione sia utile alle madri per affrontare la perdita del proprio figlio [35] e a pazienti affetti da HIV per contrastare il proprio stato di salute [36].

In sintesi, sembrerebbe che la religiosità possa essere considerata una valida strategia di coping per chi sperimenta alti livelli di stress psicologico [37].

Negli ultimi dieci anni è cresciuto l’interesse dei ricercatori sull’effetto protettivo della religione in adolescenza [38]. L’effetto protettivo della religione o della spiritualità è imputabile sia alla disapprovazione o proibizione di molti comportamenti a rischio sia al supporto sociale che essa può offrire [39]. Con particolare riferimento ai giovani, moltissimi studi concordano nel rilevare una positiva associazione tra la religiosità degli individui e la loro autostima [40]. Tutti gli studi analizzati, sembrano concordare nell’indicare che livelli elevati di autostima siano correlati con la partecipazione attiva ad attività religiose [41].

4. Fede in Dio e benessere psicologico

Al termine di quest’analisi generale, si può facilmente concordare con Piedmont (2004), il quale ha sostenuto che coloro che hanno un alto livello di spiritualità avrebbero anche un orientamento ottimistico della vita, un’alta resistenza allo stress, un grande supporto sociale e un basso livello di ansia [42] e – più in generale – un livello superiore di benessere psicologico o di soddisfazione per la propria vita.

Negli ultimi decenni si è assistito ad un notevole incremento di studi centrati sull’indagine del benessere soggettivo [43]. Il benessere soggettivo (Subjective Well-Being – SWB) è un fenomeno di natura interna legato alle esperienze degli individui [44] e si riferisce al modo in cui le persone percepiscono e valutano la propria vita [45]. È caratterizzato da due dimensioni tra loro collegate: cognitiva (riferita al processo globale di valutazione della propria esistenza e a processi specifici, come il lavoro, la famiglia o il tempo libero) ed emotiva (connessa all’esperienza di stati affettivi piacevoli o spiacevoli).

Il benessere soggettivo è stato studiato in relazione a molte caratteristiche individuali, ad esempio: lo stato civile [46], le attività svolte nel tempo libero [47] o dimensioni psicologiche come la personalità [48].

Secondo molti studi [49], chi possiede alti livelli di spiritualità sembrerebbe avere maggiori livelli di benessere psicologico, ma non tutte le ricerche sembrano essere concordi, in particolare, alcuni studi non hanno identificato questa relazione [50]. Nell’unico studio realizzato in Italia, la relazione tra Fede in Dio e benessere è stata confermata e – in particolar modo – per i maschi, secondo gli autori di questo studio, le differenze registrate in letteratura sono in larga parte imputabili ad una diversa operazionalizzazione dei diversi costrutti [51].

5. Il ruolo del coping nella costruzione del benessere individuale

Il rapporto fra religiosità e condizione di salute psico-fisica potrebbe essere spiegato da meccanismi comportamentali (la religione potrebbe essere associata a uno stile di vita sano) o sociali (i gruppi religiosi spesso forniscono un supporto, diretto o indiretto, ai propri membri).

Parallelamente, il benessere psicologico potrebbe derivare da un significativo contributo che una vita spirituale produrrebbe nell’abbattimento dei livelli di stress. (King et al., 2006).

Sembrerebbe che, a fronte di un evento stressante le persone che hanno fede in Dio adottino strategie di coping (ossia le strategie di riduzione dello stress) aggiuntive come la preghiera [52]; oppure, ad esempio davanti ad un evento luttuoso, fanno maggior ricorso al meaning-based coping [53] che consente di ridefinire i propri valori, chiarire quali sono le proprie priorità e conseguire importanti mete [54]. Questa strategia aumenta la sofferenza nel breve periodo (quando è difficile conciliare le proprie attese di fede con la sofferenza indotta da un lutto) ma produce livelli di benessere maggiori nel lungo periodo [55].

Il termine inglese coping è probabile che derivi dal latino colaphus e dal greco kolaphos, ossia: colpire o schiaffeggiare. In inglese, il termine è stato anticamente utilizzato con il significato di incontrare, scontarsi o disputare.

Negli anni sessanta, lo scienziato americano Lazarus ha utilizzato il termine coping per descrivere il complesso processo di fronteggiamento dello stress. La capacità di coping si riferisce non soltanto allo sforzo per la risoluzione di problemi, ma anche alla gestione delle proprie emozioni e dello stress derivati dal contatto con situazioni problematiche.

Lo stress può essere definito come uno stato nel quale l’individuo è messo di fronte a situazioni ambientali che richiedono una modifica del suo atteggiamento o del suo comportamento, mentre il termine coping viene definito come lo sforzo cognitivo e comportamentale che viene messo in atto al fine di controllare, tollerare e ridurre le richieste interne ed esterne e i conflitti tra queste. Il termine coping ha comunque mantenuto il significato originario legato all’azione di colpire… il problema.

Sul piano teorico i modelli interpretativi del coping sono principalmente tre:

  • Psicodinamico
  • Comportamentale
  • Cognitivo

Nell’ambito della psicologia dinamica il termine coping è spesso utilizzato come sinonimo di meccanismi o strategie di relazione/adattamento all’ambiente e che si esprimono in termini di stati dell’Io. A ognuno dei possibili stati si tende ad attribuire valori gerarchici diversi, così che alcuni tipi di coping sono considerati meno evoluti e più disorganizzati di altri. Nella psicologia dinamica si focalizza l’attenzione sugli impulsi e sull’esame della realtà, per capire come i conflitti sono risolti dagli individui.

Il paradigma comportamentista studia le condizioni obiettive che determinano il comportamento di coping, senza fare riferimento ai contenuti mentali; coping come comportamento che viene adottato con il fine di regolare lo stress.

Nel paradigma cognitivista sono studiati i processi di pensiero delle persone nel momento in cui devono affrontare le situazioni. Particolare influenza sullo studio del coping ha avuto la teoria cognitivo-fenomenologica di Lewin, che pone enfasi sull’interazione persona-ambiente: la persona e l’ambiente sono in uno stato dinamico costante di azioni e reazioni. Secondo questo modello lo stress viene considerato come un insieme di processi che comportano interazioni e adattamenti, chiamati “transazioni”, tra la persona e l’ambiente. La persona è vista come un agente attivo, in grado di influenzare l’impatto degli eventi stressanti mediante strategie emotive, cognitive e comportamentali. Secondo il modello cognitivo-transazionale di Lazarus (che si basa sulla teoria lewiniana), lo stress è una componente naturale della vita. Questo modello concepisce lo stress come lo squilibrio tra la percezione che le persone hanno dei problemi che si presentano loro e la percezione delle risorse che possiedono per farvi fronte. Perciò è un’esperienza soggettiva quella che determina se un evento è considerato stressante.

Secondo Lazarus e Folkman, il coping designa l’insieme di sforzi cognitivi e comportamentali tesi a dominare, ridurre o tollerare le richieste interne ed esterne (psicologiche o ambientali) che minacciano o superano le risorse di un individuo [56]. Si possono distinguere due tipologie di strategie coping: il coping focalizzato sull’emozione, che consiste nel regolare le emozioni connesse allo stress e che viene impiegato nelle situazioni valutate dall’individuo come suscettibili al cambiamento, e il coping focalizzato sul problema, che viene utilizzato nelle situazioni che l’individuo ha sotto controllo e – di conseguenza – nelle situazioni ritenute modificabili.

Compas, nel tentativo di mettere ordine all’interno della complessità del costrutto di coping, opera una distinzione tra risorse, strategie e stili di coping. Le risorse di coping includono sia aspetti relativi al sé, quali l’autostima, la capacità di problem solving e le abilità interpersonali, sia aspetti relativi all’ambiente circostante, come la disponibilità di una rete di supporto sociale, e si riferiscono agli elementi da cui un individuo può attingere per fronteggiare gli eventi che sollecitano la sua risposta cognitiva, emotiva e comportamentale [57].

Le strategie di coping constano di azioni cognitive e comportamentali attuate nel corso di un particolare evento stressante: esse possono variare nel tempo e dipendono dal contesto e dalla natura dello stressor.

Gli stili di coping rappresentano la tendenza di una persona ad agire in modo coerente in determinate situazioni e riflettono le modalità di coping preferite dall’individuo coerenti con i valori personali, le credenze e gli obiettivi [58].

Per Lazarus e Folkman, il processo di coping ha due funzioni essenziali: una, volta a intervenire direttamente sul problema e a gestire il rapporto alterato tra individuo e ambiente, che è alla base dello stress. L’altra rivolta alla regolazione degli stati emozionali che derivano dalla presenza dell’evento stressante. Queste due funzioni corrispondono, la prima al coping focalizzato sul problema (problem-focused coping), la seconda al coping focalizzato sull’emozione (emotion-focused coping).

La prima tipologia di coping implica attività dirette verso la modifica, l’evitamento o la minimizzazione dell’impatto con uno stressor, oppure può implicare attività cognitive tali da indurre il convincimento di poter controllare lo stressor stesso. La seconda tipologia di coping, definita anche “cognitive strategies” in quanto implica piuttosto il pensiero che l’azione si riferisce a tentativi di controllare l’emozione con l’utilizzazione di meccanismi che impediscono lo scontro diretto con l’evento stressante. Il coping focalizzato sull’emozione non modifica la relazione con lo stressor ma ne modifica il significato, e perciò la reazione emotiva. Tuttavia non è una strategia passiva in quanto impegna in attive ristrutturazioni interne.

Tabella 1 – Differenze tra coping centrato sul problema o sull’emozione

CopingComportamento del soggetto
Problemaanalizza il problema per comprenderlo meglio   elabora e segue un piano d’azione tiene duro e lotta per ciò che vuole sa cosa c’è da fare e si impegna a fondo per appianare le cose cerca di non agire troppo in fretta  e di non seguire il proprio
Emozionecerca di dimenticare l’intera faccenda   tenta di vederne il lato positivo conclude che non tutto il male viene per nuocere gradisce la simpatia e la comprensione degli altri riscopre le cose veramente importanti della vita non si lascia prendere la mano e si rifiuta di pensarci troppo decide che ci sono cose ben peggiori per cui preoccuparsi

Fonte: R.S. Lazarus e S. Folkman, 1984.

Altri autori sono giunti a una classificazione basata su tre tipi di strategie, aggiungendo alle due individuate da Lazarus e Folkman, la strategia dell’avoidance (evitamento). L’evitamento è inteso come un processo attivo, e quindi a suo modo adeguato alla situazione, e può implicare reazioni orientate al compito, oppure reazioni orientate alla persona. Ciò significa che di fronte ad una situazione stressante, l’individuo può reagire cercando le persone (ricerca di sostegno sociale), o impegnandosi in qualcosa di diverso (distrazione).

La strategia di evitamento è inclusa all’interno di un altro modello frequentemente utilizzato in letteratura, che è quello dell’avvicinamento/evitamento (approach/avoidance). La prima categoria contiene quei comportamenti orientati al problema, volti a trovare nuove modalità di approccio sia cognitive che emotive per affrontarlo in modo diretto con modificazioni del soggetto, dell’ambiente, o della relazione fra i due. La seconda categoria contiene tutti quei comportamenti di allontanamento o evitamento dello stressor, volti a controllarne l’impatto emotivo, tra cui la negazione della minaccia e l’abbassamento della tensione attraverso l’espressione delle emozioni.

Recentemente, sono state identificate da Frydenberg 18 strategie, che a loro volta sono comprese all’interno di tre stili principali di coping: due funzionali e uno disfunzionale [59]. Il primo riguarda la risoluzione del problema, caratterizzato dall’affrontare i problemi con ottimismo, fiducia e mantenendo relazioni sociali; il secondo riguarda il riferirsi ad altri per un sostegno; il terzo stile è relativo a modalità di coping non produttive e comprende strategie di evitamento del problema. Tra le 18 strategie figura il coping religioso o spirituale.

6. Il coping religioso e spirituale

Pargament (1997) parla di coping religioso, un costrutto multidimensionale utilizzato per valutare le cause degli eventi stressanti, per definirli e per affrontarli.

Le strategie di coping religioso possono essere passive, attive o interattive, utilizzare approcci che si focalizzano sul problema o sulle emozioni e considerare domini diversi (comportamentale, cognitivo, interpersonale o spirituale). Esistono due diverse forme di coping religioso, una positiva e una – tendenzialmente – negativa.

Tabella 2 – Strategie di coping religioso

TipologiaDenominazioneDescrizione
PositivePurificazione religiosa/perdonoRicorrere alla religione per liberarsi dalla paura, dalla collera e dal peccato.
Conversione religiosaRicorrere alla religione per un cambiamento radicale nella propria vita.
Aiuto religiosoProvvedere al supporto ed al conforto spirituale degli altri.
Ricerca di supporto dal cleroRicercare conforto e rassicurazione dai membri della comunità religiosa e dal clero.
Coping religioso collaborativoCercare di ottenere il controllo sugli eventi attraverso una partnership con Dio.
Focus religiosoImpegnarsi in attività religiose per spostare il focus dagli eventi stressanti.
Resa attiva religiosaCedere attivamente a Dio il controllo sugli eventi.
Rivalutazione religiosa positivaRidefinire lo stress, grazie alla religione, in positivo e potenzialmente benefico.
Connessione spiritualeFare esperienza di un senso di unione con forze che trascendono l’individuo.
Tracciare i confini religiosiTracciare una chiara linea di demarcazione tra i comportamenti accettabili e quelli non accettabili dal punto di vista della religione e rimanere entro i confini religiosi.
NegativeScontento spiritualeManifestare nelle situazioni stressanti confusione e scontento nel rapporto con Dio.
Rivalutazione demoniacaRidefinire gli eventi stressanti come azioni del Diavolo.
Differimento passivo religiosoAspettare passivamente che Dio gestisca la situazione.
Scontento interpersonale religiosoManifestare nelle situazioni stressanti confusione e scontento nel rapporto con il clero e con gli altri membri della comunità religiosa.
Rivalutazione del potere di DioRivalutare il potere di Dio nell’influenzare le situazioni stressanti.
Rivalutazione delle punizioni di DioRivalutare gli eventi stressanti come una punizione di Dio per i propri peccati.
Supplica per una intercessione direttaRicercare indirettamente il controllo sugli eventi tramite una supplica a Dio per un miracolo o un’intercessione divina.

Diversi studi dimostrano come il coping religioso positivo sia correlato con il benessere psicologico. [60]

Coerentemente con quanto indicato in precedenza, gli individui che usano strategie di coping religioso positive fanno minore esperienza di depressione, ansia ed angoscia, riportano una maggiore crescita spirituale, una crescita rispetto alla situazione stressante, affetti positivi ed hanno una maggiore autostima [61].

Le strategie di coping negativo non necessariamente impediscono esiti positivi; infatti, vi sono alcuni studi che riportano una crescita spirituale ed una crescita collegata allo stress [62]

Nella maggior parte dei casi, però, possono avere degli effetti dannosi [63] e rappresentano un peso per gli individui che si trovano in situazioni stressanti.

L’orientamento religioso intrinseco ed il coping religioso positivo riflettono un coinvolgimento nella religiosità adattivo e a lungo termine: la religione aiuta a dare un senso al mondo e permette alle persone di valutare e far fronte positivamente agli eventi stressanti per un più lungo periodo di tempo [64].

Recentemente è stato proposto un Framework Spirituale del Coping, che utilizza il Modello dello stress e del coping nella sua forma più recente [65] per approcciare, organizzare e capire la letteratura sulla religione, sul coping e sulla salute [66]. Secondo questo modello la spiritualità può operare a diversi livelli nel processo dello stress e del coping, al livello dei fattori personali, delle valutazioni, del coping o della ricerca di significato. [67]

 
  

Figura 1 – Framework Spirituale del Coping

Le valutazioni spirituali, i fattori personali, il coping spirituale, la connessione spirituale e la ricerca di significato rivestono notevole importanza per lo sviluppo ed il mantenimento del benessere emotivo, psicologico, fisico e spirituale della persona.

Le valutazioni spirituali rappresentano un primo tentativo di dare un senso agli eventi in base a quelle che sono le proprie credenze religiose. Questo primo tentativo aiuta le persone a ridurre il livello iniziale di distress [68] permettendogli di mettere in atto comportamenti di coping.

Le valutazioni spirituali comprendono le attribuzioni casuali spirituali, la valutazione primaria e quella secondaria. Le attribuzioni casuali spirituali o religiose sono un mezzo per comprendere gli eventi della vita come le malattie o le ingiustizie [69], è stato trovato che sono utilizzate frequentemente dalle persone anziane malate. [70] La valutazione primaria consiste in una valutazione dell’evento mentre quella secondaria consiste in una valutazione personale della disponibilità e della potenziale efficacia di specifici metodi spirituali di coping da poter utilizzare in risposta all’evento.

Il coping spirituale è un costrutto multidimensionale che comprende strategie positive, negative, orientate al problema ed alle emozioni. [71]

Sono stati identificati tre diversi tipi di comportamenti di coping religioso: il comportamento religioso organizzativo, la religione privata e le pratiche non tradizionali. Il comportamento religioso organizzativo si riferisce al coinvolgimento delle persone in una istituzione religiosa pubblica e formale ed include quelle pratiche come l’attività volontaria nei servizi di assistenza e di culto [72]. La religione privata o le pratiche spirituali sono non organizzate, non istituzionali ed informali, includono comportamenti come la preghiera e lo studio delle sacre scritture [73]. Ed infine le pratiche non tradizionali che rappresentano l’espressione della spiritualità [74] e comprendono la contemplazione e la meditazione.

I fattori personali (la confessione religiosa, l’orientamento religioso, lo stile di problem solving e la speranza), aiutano le persone ad interpretare, comprendere e reagire ad esperienze di vita stressanti [75], danno un senso alla loro sofferenza e favoriscono un atteggiamento più ottimistico verso la vita [76], inoltre facilitano un atteggiamento attivo verso il coping e consolidano il supporto sociale in risposta allo stress [77].

Lo stile di problem solving mostra che gli individui sono predisposti a rispondere allo stress in un certo modo e che queste risposte sono relativamente coerenti al di là delle situazioni. Sono stati individuati diversi stili di problem solving: lo stile auto-diretto, che indica quelle persone che funzionano in maniera indipendente da Dio, lo stile collaborativo, che vede la persona impegnata con Dio in un reciproco processo di problem solving e lo stile deferente, che si riferisce a quelle persone che aspettano passivamente che Dio risolva i loro problemi [78]. È stato proposto anche un quarto stile di problem solving, di resa, che corrisponde alla decisione di cedere attivamente a Dio il controllo di quegli aspetti della situazione che sono fuori dalla portata della persona [79].

La speranza è un costrutto cognitivo che comprende la motivazione personale e la percezione che un individuo ha della sua abilità ad iniziare e mantenere un comportamento diretto alla meta. Secondo questa teoria lo stress, le emozioni negative, l’inabilità a far fronte agli eventi e le difficoltà funzionali sono il risultato dell’incapacità di programmare e mettere in atto strategie dirette alla meta [80].

La connessione spirituale comprende la connessione con la natura, con gli altri e con Dio. La connessione spiruale con la natura rappresenta una risorsa per le persone che si trovano ad affrontare situazioni difficili, Suzuki [81] riporta che le pazienti con cancro terminale raccontano dell’effetto rasserenante che ha su di loro la natura. Sfortunatamente sono state condotte poche ricerche empiriche su questo argomento.

Come già accennato in precedenza, la connessione spirituale con gli altri, all’interno della comunità religiosa/spirituale, è una importante risorsa di cure [82], molte ricerche riportano che la comunità religiosa è una comune fonte di supporto per le persone che si trovano in difficoltà [83].

Pargament ha ampliato il ruolo della religione e della spiritualità nel processo di coping inserendo nel modello l’attaccamento spirituale a Dio (connection to God) come un fattore chiave nel processo del coping religioso [84]. La relazione positiva con Dio comporta conforto, supporto sociale, senso di appartenenza, forza interiore, accettazione, empowerment, controllo, conforto per distress emotivo e per specifiche paure e la creazione di significati [85]. Al contrario una relazione negativa con Dio, per esempio legata a punizioni divine, è collegata ad un’esperienza di grande distress [86].

Ed infine, la ricerca di significati tocca tutti gli aspetti della vita incluso il lavoro, i rapporti interpersonali, gli atteggiamenti e la più generale filosofia di vita. L’abilità a dare un senso agli eventi promuove il coping, l’adattamento e il benessere [87]. Al contrario, non essere in grado di trovare un significato agli eventi comporta distress, dubbi, incertezze e può condurre all’inattività e all’inibizione dei comportamenti di coping [88]. La religione gioca un ruolo significativo in questo processo con i suoi atteggiamenti e le sue credenze circa il mondo, se stessi e gli altri [89]. La religione aiuta a collocare un evento dentro “un più grande disegno divino” e questo fa sì che l’evento acquisti un nuovo significato e non sia più visto come dovuto al caso. In questo modo eventi anche drammatici siano adattati al proprio sistema di credenze ed accettati con più facilità.

8. Conclusioni

Gran parte della letteratura scientifica analizzata converge nell’identificare la religione come una risorsa importante per il coping, in particolare per soggetti socialmente emarginati o quando le persone sono spinte al limite delle risorse emotive. Una parte importante della letteratura considera importantissima la funzione religiosa e la partecipazione spirituale nella vita dell’individuo, soprattutto nel periodo di perdite, dove la crisi spirituale può essere parallela o contribuire alla sofferenza psicologica e la fede religiosa può fornire un ontologico punto d’appoggio per il coping religioso.

Anche sulla base di molte delle evidenze empiriche presentate all’interno di questa breve rassegna, l’APA – American Psycological Association, nel 2002, ha riconosciuto il valore della religiosità e della spiritualità per la trasmissione valoriale e delle credenze. Il valore della religione è riconosciuto sia in relazione alla psicologia applicata, sia in rapporto con l’intervento clinico.

In ambito clinico, l’aspetto religioso e spirituale può essere utile nella valutazione preliminare del soggetto, i risultati questa fase iniziale potrebbero determinare il seguito della terapia, laddove il coping religioso viene a costituirsi come variabile clinica non trascurabile. Un secondo livello di valutazione è raccomandato quando la religione e la spiritualità caratterizzano fortemente la visione del paziente, poiché possono spesso rappresentare una risorsa o – più raramente – un ostacolo al progresso terapeutico. In questo modo, i problemi religiosi e spirituali possono diventare il focus dell’attenzione clinica.

In ambito clinico, condurre un’assistenza religioso-spirituale può aiutare i terapisti a capire la visione del mondo dei loro pazienti [90].

Tra le tecniche considerate nella valutazione religiosa-spirituale, una consiste nell’avere informazioni dal cliente circa le varietà e la multidimensionalità della sua esperienza religiosa. Un’altra tecnica consiste nel far scrivere una biografia spirituale, per costruire una mappa spirituale in modo da descrivere una linea del tempo con i punti, gli eventi e lo scorrere all’interno di questo viaggio spirituale.

Worthington e Sandage (2002) riportano i risultati positivi di nove studi effettuati attraverso la psicoterapia basata sulla religione con clienti religiosi e attraverso l’introduzione di interventi religiosi. Attualmente, è tuttavia molto raro che gli psicologi prendano in considerazione l’aspetto religioso e spirituale del soggetto durante le terapie, ciò dipende anche dal fatto che storicamente molti clinici ricevono poca o nessuna formazione per la valutazione della religione e della spiritualità come variabili cliniche e solo recentemente la religione è stata interpretata scientificamente nella letteratura. L’integrazione delle risorse religiose e spirituali è stata talvolta realizzata attraverso la collaborazione con professionisti religiosi.

In questo ambito è rilevante l’attenzione crescente della ricerca in relazione al workplace spirituale, ossia il quadro valoriale-spirituale.

Sono numerosi i livelli di analisi di un workplace spirituale sia a livello individuale sia di sistema. Il livello individuale si riferisce ad un set personale di valori che promuovono l’esperienza del trascendente attraverso il processo di lavoro, facilitando un senso di vicinanza agli altri in un percorso che fornisce sentimenti di gioia e completezza. A livello sistemico l’analisi viene estesa ai gruppi, alle organizzazioni o alle comunità.

Probabilmente, nei prossimi anni anche in Italia come negli altri paesi crescerà l’attenzione per la relazione tra le dimensioni spirituali e religiose e le variabili psicologiche, anche in ambito clinico e terapeutico. Sarà compito della psicologia saper trovare una integrazione tra le diverse istanze e produrre percorsi formativi in grado di valorizzare l’esperienza religiosa e spirituale e – soprattutto – di saperla coniugare e declinare all’interno di strumenti e pratiche di intervento.

1  James, W. (1961). The varieties of religious experience. New York: Collier Books. (Original work published 1902). Journal of Psychology and Theology, 32, (1), 62-63.

2  Cfr. McCullough, M. E., Hoyt, W. T., Larson, D. B., Koenig, H. G., Thoresen, C. (2000). Religious involvement and mortality: A meta-analytic review. Health Psychology,19, 211-222. Powell, L. H., Shahabi, L., Thoresen, C. E. (2003). Religion and spirituality: Linkages to physical health. American Psychologist, 58, 36-52.

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